In questa sezione riportiamo le notizie più interessanti che sono state pubblicate e possono essere fonte di stimolo per i pazienti.
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Coronavirus, come incide la dieta sulla forza del sistema immunitario
di Milena Gabanelli
Quello che abbiamo capito
in questi drammatici mesi è che in caso di
contagio, l’aggravamento è provocato da uno stato di infiammazione profonda che altera il sistema immunitario. E quindi, oltre al rigido rispetto delle regole, quello che possiamo fare è cercare di rafforzare il nostro sistema immunitario, che è strettamente legato al microbiota
intestinale, ovvero quell’insieme di microrganismi che regolano molte funzioni e generano una risposta anti-infiammatoria contro i patogeni. Il 70-80% delle cellule immunitarie del corpo si trova proprio nell’intestino e,
quindi, l’efficienza di questa attività dipende dalla varietà di alimenti e dalla qualità dei nutrienti che appunto introduciamo con il cibo. Certo, poi ognuno è diverso e quindi l’aspetto nutrizionale va personalizzato. Per esempio: gli agrumi sono una importante fonte
di vitamina C, ma se soffro di gastrite li devo evitare e sostituire con qualcos’altro. Ecco quindi la buona pratica suggerita da dietologi e immunologi.
L'ARTICOLO COMPLETO LO TROVERETE AL SEGUENTE INDIRIZZO
https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/coronavirus-come-incide-dieta-forza-sistema-immunitario/ca0e529c-8ef4-11ea-8162-438cc7478e3a-va.shtml
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Allarme Fans: rischio infarto aumenta fino al 50%, già nella prima settimana di trattamento. Studio sul BMJ riapre il caso antinfiammatori
I più a rischio sono i pazienti che assumono dosaggi elevati. Metanalisi su oltre 446 mila individui sul British Medical Journal. L’aumento del rischio di infarto del miocardico
stimato in +24% per il celecoxib, +48% per l’ibuprofene, +50% per il diclofenac, +53% per il naprossene, +58% per il rofecoxib (ritirato dal commercio in Italia dal settembre 2004). L’acme viene
raggiunto entro il primo mese di trattamento, ma l’aumento del rischio è già evidente nella prima settimana. LO STUDIO SUL
BMJ
15 MAG - Una nuova metanalisi, effettuata su oltre 446 mila individui dimostra che l’uso di tutti i FANS e dei coxib si associa ad un aumentato rischio di infarto che arriva al + 53% con il
naprossene. Il rischio sembra correlato più agli elevati dosaggi, che non alla durata del trattamento. Definito anche il timing del rischio di infarto, che aumenta già nella prima settimana di
trattamento e raggiunge l’acme nel primo mese di trattamento. Un importante warning per tutti i medici prescrittori e per il fai-da-te della terapia del dolore da parte dei pazienti.
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L’obesità modifica il cervello!
L’obesità, nei primi anni di vita, può provocare conseguenze nel cervello contribuendo alle disfunzioni cognitive durante l'invecchiamento.
OBESITÀ INFANTILE
Questo è quanto, nella sostanza, è stato dimostrato su animali da esperimento (ratti), sottoposti nelle prime settimane di vita a una dieta a elevato contenuto di grassi. I ratti hanno dimostrato,
già dopo solo 15 settimane di dieta ricca di grassi, i primi deficit dell’apprendimento.
E quando gli stessi animali erano ormai fuori dal periodo della dieta ricca di grassi, a 61 settimane di vita, e avevano ripreso le normali caratteristiche metaboliche, si sono confermati i gravi
deficit di apprendimento e del consolidamento della memoria a lungo termine. Gli autori ritengono che già a 15 settimane dall’insorgenza di obesità e insulino-resistenza, si possano osservare
modificazioni epigenetiche (nel DNA espresso nei tessuti cerebrali) irreversibili nel cervello che persistono dopo ripristino della normale omeostasi metabolica, con conseguenti disfunzioni cerebrali
durante l'invecchiamento.
In altri termini, l’obesità che insorge nei primi anni di vita lascia segni irreversibili nel cervello. Se, ciò che è stato dimostrato nei ratti di laboratorio, si confermerà anche nell’uomo,
l’obesità infantile potrebbe essere uno dei fattori di rischio sui quali intervenire per la prevenzione del deterioramento cognitivo dell’anziano.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25380530
J Comp Neurol. 2014 Nov 7. doi: 10.1002/cne.23708. [Epub ahead of print]
Childhood/adolescent obesity and long term cognitive consequences during aging
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Una colazione abbondante aiuta a perdere peso
È stato dimostrato che l’abitudine di fare la prima colazione, anche se abbondante e ipercalorica, può favorire la perdita di peso, nelle donne obese con sindrome
metabolica. Ma gli studi in proposito sono ancora in discussione.
Lo studio
Per perdere peso, è meglio mangiare di più a colazione, a pranzo o a cena? Secondo uno studio condotto su donne in sovrappeso o obese e con sindrome metabolica, la soluzione sta nel concentrare un
maggiore apporto di calorie nella prima colazione. Lo scopo primario dello studio è stato quello di confrontare una dieta restrittiva (fatta per perdere peso) con una dieta a
elevato apporto calorico durante la prima colazione e una dieta isocalorica con più elevato apporto calorico a cena.
Le donne in sovrappeso e obese (BMI 32,4 ± 1,8 kg / m 2) con sindrome metabolica sono state randomizzati per ricevere tre tipi di dieta: una isocalorica (~ 1400 kcal), una con
prima colazione ipercalorica (BF) (700 kcal colazione, pranzo 500 kcal, 200 kcal cena ) e una (D) prevedeva un maggior apporto di calorie a cena (200
kcal colazione , pranzo 500 kcal, 700 kcal cena), l’osservazione è durata per 12 settimane consecutive.
Si è così prima evidenziato che il gruppo BF ha mostrato una maggiore perdita di peso e riduzione di circonferenza vita. Inoltre, sebbene la glicemia a digiuno, l’insulina e la grelina siano
diminuiti in tutti i gruppi, la glicemia e il test di stimolazione all’insulina erano diminuiti significativamente nel gruppo BF.
I livelli medi di trigliceridi sono diminuiti del 33,6% nel gruppo BF, ma sono aumentati del 14,6% nel gruppo D. Il test orale di tolleranza al glucosio ha mostrato una maggiore diminuzione
della glicemia e dell’insulinemia solo nel gruppo BF. In fine i test di risposta per saggiare la fame e la sazietà hanno complessivamente dimostrato un elevato senso di sazietà nel gruppo
BF.
Dunque gli autori ritengono che una colazione ricca e abbondante in calorie, possa essere la proposta vincente per ottenere un buon compenso metabolico in donne obese già sottoposte dieta allo
scopo di perdere peso. Una proposta che in genere è ben accetta anche dai pazienti con obesità già complicata da alterazioni metaboliche, e che potrebbe essere utile per aumentare la loro aderenza a
un piano terapeutico restrittivo, che va sempre ben calibrato dallo specialista medico e nutrizionista.
Autore: Patrizia Maria Gatti
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23512957
Obesity (Silver Spring). 2013 Mar 20. doi: 10.1002/oby.20460. [Epub ahead of print]
High Caloric intake at breakfast vs. dinner differentially influences weight loss of overweight and obese women.
Più stress?! Più cibo e più calorie
Lo stress cronico sembra aumentare l’assunzione di cibo che, a sua volta, aumenta la deposizione di grasso mesenterico e inibisce l’attività dell'asse
ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA).
Lo studio
Allo scopo di studiare l'influenza dello stress cronico sociale e la reattività allo stress acuto, sulla scelta e l’assunzione del cibo, sono state reclutate 41 donne (BMI = 25,9 ± 5,1 kg/m
2, range età 41-52 anni) in sovrappeso o obese. Si procedeva sottoponendo le donne a un test validato per lo studio delle risposte allo stress sociale (TSST - Trier Social Stress Task) o a
un compito di controllo cognitivo (visione di un film sulla natura) per esaminare le risposte HPA a uno stress acuto e poi invitandole a mangiare da un buffet che offriva spuntini ipocalorici o
ipercalorici.
Le stesse donne sono state anche classificate come esposte ad alto stress cronico o a basso stress cronico sulla base dei punteggi ottenuti dalle risposte a un test già validato per lo stress
sociale (Indice Wheaton). Si è così evidenziato che le donne che riportavano un maggiore stress cronico e una minore esposizione alla reattività al TSST (espressa dalla misura dei livelli di
cortisolo plasmatico) consumavano una quantità molto elevata di torta al cioccolato, sia subito dopo il TSST, sia alle visite di controllo.
La condizione di stress cronico nello stesso gruppo è stata anche positivamente correlata al totale della massa grassa, alla percentuale di grasso nelle varie zone, e a uno stato d'animo negativo
(sintomi depressivi). Nelle donne della fascia di età più alta, lo stress cronico, è stato correlato positivamente alle calorie totali assunte al buffet, allo stato d'animo negativo e al desiderio di
cibo. Tra l’altro, solo le più anziane consumavano frutta e verdura. Gli autori ritengono dunque che questi risultati depongano per una predisposizione a mangiare di più e, soprattutto, più cibi
ipercalorici, nelle situazioni di stress cronico.
Clinica pratica
I risultati di questo studio confermano un’evidenza cinica abbastanza frequente nell’approccio diagnostico alle pazienti in sovrappeso o obese. Queste delicate pazienti spesso mostrano un cattivo
rapporto emozionale col cibo che diventa lo stimolo a mangiare di più, e questo comportamento alimenta, a sua volta, uno stato depressivo di fondo.
Il cibo acquisisce così una valenza consolatoria e al tempo stesso una valenza d’inimicizia. La proposta di eccessive restrizioni è, in questi casi, quasi sempre fallimentare. E’ meglio guidare la
paziente verso la consapevolezza di quanto insistere in una condotta alimentare disordinata possa danneggiare la salute e vanificare ogni sacrificio sopportato per perdere peso.
Autore: Patrizia Maria Gatti
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23500173
Physiol Behav. 2013 Mar 14. pii: S0031-9384(13)00047-4. doi:
10.1016/j.physbeh.2013.02.018. [Epub ahead of print]
Having your cake and eating it too: A habit of comfort food may link chronic social stress exposure and acute stress-induced cortisol hyporesponsiveness.
La dieta mediterranea combatte le infiammazioni
Le influenze dell'alimentazione
sulle infiammazioni sono molteplici.
Numerosi studi si occupano di come ciò che mangiamo agisca sul nostro sistema
immunitario, come sottolinea il professor Carlo Selmi.
La ricerca si è
occupata molto (e continua a farlo) del legame tra alimentazione e
infiammazione. Sono stati condotti numerosi studi in questo senso, ma il professor Carlo Selmi, responsabile della sezione di
Reumatologia e Immunologia Clinica dell’Istituto Clinico Humanitas e docente
dell’Università degli Studi di Milano, sottolinea che gli studi più solidi sono
quelli su larga scala o che coinvolgono ampi database
di popolazione. Ne è
un esempio la rassegna sistematica degli studi noti dedicati agli effetti di frutta e verdura
sulle malattie infiammatorie. L’articolo, pubblicato sullo European Journal of
Nutrition, è un esempio di come la
ricerca
clinica e di laboratorio fornisca dati importanti ma non esaustivi. Qualche
esempio: per quanto riguarda il diabete di tipo
II, patologia
strettamente correlata all’alimentazione, i dati in possesso sono nell’ordine
della probabilità mentre nel caso delle malattie infiammatorie croniche
distinguiamo i dati relativi alle patologie che interessano l’intestino
e quelli concernenti
l’artrite
reumatoide. Nel primo caso
i
dati umani sono insufficienti, nel secondo siamo ancora nel campo delle
possibilità.
La
dieta mediterranea e l’artrite
reumatoide
Possiamo prendere a
modello l’artrite reumatoide: patologia infiammatoria cronica piuttosto diffusa
(0,5-1% della popolazione) che colpisce le articolazioni
ma non solo,
diagnosticata soprattutto nelle donne e generalmente nei giovani adulti. Sono
stati condotti due studi su pazienti affetti da questa patologia: il primo
suggeriva loro di seguire la dieta
mediterranea tipica dell’isola
di Creta
(in cui l’olio di oliva è pressoché l’unica
fonte di grassi); il secondo
si basava sempre sulla dieta mediterranea, ma prevedeva alcune lezioni
settimanali di educazione a questo tipo di alimentazione. Dai risultati è
emerso che in entrambi i casi i pazienti avevano un miglioramento
della sintomatologia dolorosa che è piuttosto
invalidante in questa
malattia; i pazienti del secondo gruppo però segnalavano anche una riduzione della
disabilità, intesa come maggior
autonomia nel
condurre la vita quotidiana.
Gli
alimenti trigger
Per quanto importanti,
gli studi di questo tipo hanno tuttavia dei limiti;
non di rado capita
che si osservino evidenze opposte, ne è un esempio il caso del caffè:
bevanda che, a fronte di numerosi effetti positivi riscontrati in studi
di laboratorio è anche alimento trigger, capace di
scatenare dolore
in alcuni pazienti affetti da artrite
reumatoide. Si è osservato infatti che alcuni soggetti provano dolore in
seguito all’assunzione di alcuni alimenti, si tenta allora di eliminarli dalla
dieta per 15-20 giorni
e si vede cosa
accade. I cosiddetti trigger variano da paziente a paziente, dunque è difficile
fare una casistica, i più segnalati sono: carni grasse e di manzo, arance,
latte e latticini, uova e caffè appunto, ma anche in alcuni casi il glutine
contenuto nella dieta. A questo proposito, la dieta a
eliminazione di elementi
che
scatenano dolore ha portato un miglioramento soggettivo in 2/3 dei pazienti in
uno studio controllato.
A che
cosa sono dovuti i benefici degli
alimenti?
Esistono alimenti che
contengono molecole
antinfiammatorie, come nel
caso
dell’olio di semi di lino che contiene acidi grassi omega3 o dei pomodori,
ricchi di licopene, un importante immunomodulatore.
Anche gli studi
condotti sui singoli supplementi hanno grossi limiti: gruppi di pazienti
piccoli, eterogenei, risultati spesso inficiati dall’uso non della singola
molecola naturale antinfiammatoria, ma di alimenti o preparati contenenti molti
altri costituenti o eccipienti. Segnaliamo comunque l’importanza degli
antiossidanti come i polifenoli
(contenuti nel cacao,
per esempio), le vitamine C ed E e il già citato licopene
sebbene anche in questi casi, come ben
illustrato dalla vitamina D, i dati
siano scarsamente conclusivi.
A cura di Valeria
Leone